Come è disciplinata la responsabilità nell’appalto




Oggi facciamo un breve excursus su quella che è la responsabilità nel contratto di appalto.

Un contratto molto ricorrente soprattutto nell’ambito della realizzazione di opere dalla cui esecuzione nascono tutta una serie di responsabilità sia in capo al committente (e quindi a chi ha interesse all’esecuzione dei lavori) sia in capo all’appaltatore (chi esegue materialmente l’esecuzione dell’opera).

La trattazione è suddivisa in paragrafi.

  1. Il contratto di appalto. Caratteri peculiari

L’appalto è disciplinato dagli artt. 1655 e ss. c.c. e rappresenta il contratto con il quale una parte assume, con l’organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.

La prevista presenza dell’organizzazione e del rischio rendono l’appalto necessariamente un contratto d’impresa, in ciò differenziandolo rispetto al contratto d’opera (art. 2222 c.c.).

Oggetto dell’appalto è un’attività, ovvero prevalentemente un facere, finalizzato al compimento dell’opera o del servizio, secondo le previsioni contrattuali e le regole dell’arte, espressamente richiamate dall’art. 1662 c.c. e presupposte dal successivo art. 1667 c.c.

L’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, se non è stato espressamente autorizzato dal committente (art. 1656 c.c.).

L’appaltatore non può apportare variazioni alle modalità convenute dell’opera se il committente non le ha autorizzate (art. 1659 c.c.). L’autorizzazione si deve provare per iscritto.

Anche quando le modificazioni sono state autorizzate, l’appaltatore, se il prezzo dell’intera opera è stato determinato globalmente, non ha diritto a compenso per le variazioni o per le aggiunte, salvo diversa pattuizione (art. 1659 c.c.).

Se per l’esecuzione dell’opera a regola d’arte è assolutamente necessario apportare variazioni al progetto e le parti non si accordano, spetta al giudice di determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni del prezzo (art. 1660 c.c.).

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Se l’importo delle variazioni supera il sesto del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore può recedere dal contratto e può ottenere, secondo le circostanze, una equa indennità. Se le variazioni sono di notevole entità, il committente può recedere dal contratto ed è tenuto a corrispondere un equo indennizzo (art. 1660 c.c.).

Il committente può apportare variazioni al progetto, purché il loro ammontare non superi il sesto del prezzo complessivo convenuto.

L’appaltatore ha diritto al compenso per i maggiori lavori eseguiti, anche se il prezzo dell’opera era stato determinato globalmente. Ciò non vale quando le variazioni, pur essendo contenute nei limiti suddetti, importano notevoli modificazioni della natura dell’opera o dei quantitativi nelle singole categorie di lavori previste nel contratto per l’esecuzione dell’opera medesima.

Il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne a proprie spese lo stato (art. 1662 c.c.).

Quando, nel corso dell’opera, si accerta che la sua esecuzione non procede secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte, il committente può fissare un congruo termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni; trascorso inutilmente il termine stabilito, il contratto è risoluto, salvo il diritto del committente al risarcimento del danno.

L’appaltatore è tenuto a dare pronto avviso al committente dei difetti della materia da questo fornita, se si scoprono nel corso dell’opera e possono comprometterne la regolare esecuzione (art. 1663 c.c.).

Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati variazioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo (art. 1664 c.c.).

La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo. Se nel corso dell’opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendono notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso.

Il committente, prima di ricevere la consegna, ha diritto di verificare l’opera (art. 1665 c.c.).

La verifica deve essere fatta dal committente appena l’appaltatore lo mette in condizioni di poterla eseguire.

Se, nonostante l’invito fattogli dall’appaltatore, il committente tralascia di procedere alla verifica senza giusti motivi, ovvero non ne comunica il risultato entro un breve termine, l’opera si considera accettata.

Se il committente riceve senza riserve la consegna dell’opera, questa si considera accettata ancorché non si sia proceduto alla verifica. Salvo diversa pattuizione o uso contrario, l’appaltatore ha diritto al pagamento del corrispettivo quando l’opera è accettata dal committente.

Se si tratta di opera da eseguire per partite, ciascuno dei contraenti può chiedere che la verifica avvenga per le singole partite. In tal caso l’appaltatore può domandare il pagamento in proporzione dell’opera eseguita. Il pagamento fa presumere l’accettazione della parte di opera pagata; non produce questo effetto il versamento di semplici acconti.

L’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera (art. 1667, 1668, 1669 c.c. quest’ultimo con riferimento ai beni immobili).







La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché in questo caso, non siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore.

Il committente può recedere dal contratto di appalto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno (art. 1671 c.c.).

Se il contratto si scioglie perché l’esecuzione dell’opera è divenuta impossibile in conseguenza di una causa non imputabile ad alcuna delle parti, il committente deve pagare la parte dell’opera già compiuta, nei limiti in cui è per lui utile, in proporzione al prezzo pattuito per l’opera intera.

Se, per causa non imputabile ad alcuna delle parti, l’opera perisce o è deteriorata prima che sia accettata dal committente o prima che il committente sia in mora a verificarla, il perimento o il deterioramento è a carico dell’appaltatore, qualora questi abbia fornito la materia.

Se la materia è stata fornita in tutto o in parte dal committente, il perimento o il deterioramento dell’opera è a suo carico per quanto riguarda la materia da lui fornita, e per il resto è a carico dell’appaltatore.

 

  1. La speciale garanzia degli artt. 1667 e 1668 c.c..

Gli artt. 1667 e 1668 c.c dispongono che l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità ed in vizi dell’opera.

Qualora riscontrati, il committente può chiedere la loro eliminazione a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno in caso di colpa.

Uno degli aspetti centrali in materia di responsabilità civile dell’appaltatore è quello della natura della “garanzia”.

Ci si chiede se questa rappresenti una estrinsecazione della responsabilità per inadempimento contrattuale o diversamente si tratti di garanzia in senso tecnico.







L’identificazione quale una garanzia in senso tecnico porterebbe a concludere che l’appaltatore sia tenuto a rispondere dei vizi e delle difformità indipendentemente dalla diligenza usata ed anche nell’ipotesi in cui non sussista da parte sua alcuna colpa, nemmeno lieve (Cass. 30 luglio 1982, n. 4367).

L’adesione a tale qualificazione porterebbe, inevitabilmente, ad una estensione del rischio dell’appaltatore.

L’appaltatore infatti assumerebbe, oltre alla promessa di eseguire l’opera, anche una sorta di obbligazione autonoma di garantire che essa non sia affetta da vizi o difformità.

Parte della dottrina sostiene invece la sussistenza, in capo all’appaltatore, di una forma di responsabilità caratterizzata da una presunzione di colpa iure et de iure, cioè assoluta, senza possibilità di prova contraria.

A fondamento di tale diversa interpretazione si richiama l’art. 1660 c.c., il quale prevede che se il progetto non consente l’esecuzione dell’opera a regola d’arte, ad esso si devono apportare le necessarie variazioni, salva la possibilità per l’appaltatore di ricorrere al giudice in caso di disaccordo col committente sulle variazioni da introdurre o sulla loro valorizzazione economica.

In alcuni casi la giurisprudenza si è mostrata incline a ritenere che la garanzia dovuta dall’appaltatore si sostanzi in una responsabilità oggettiva, presente anche altrove nell’ordinamento, interpretando con ciò in modo assolutamente letterale il contenuto dell’art. 1668 c.c., e dunque collegando alla presenza della colpa soltanto il diritto, da parte del committente, di ottenere il risarcimento del danno, mentre l’appaltatore dovrà sempre sopportare le spese relative all’eliminazione dei vizi e delle difformità, oppure subire una parziale diminuzione del prezzo pattuito, “in ogni caso e a prescindere da una sua colpa” (Cass. 10 giugno 1968, n. 1825).

Critiche alla tesi della garanzia in senso tecnico dell’appaltatore sono state svolte dalla dottrina.

Si è così affermato che come in genere in materia contrattuale, anche la responsabilità dell’appaltatore si fonda sulla colpa e, per questo motivo, una volta portato a termine l’opus commissionato è compito del committente, qualora rilevi la presenza di imperfezioni, fornirne la prova utilizzando ogni mezzo utile.

A questo punto, secondo il disposto dell’art. 1218 c.c., la colpa dell’appaltatore si presume con una presunzione relativa e, se l’imprenditore vuole andare esente da responsabilità, deve allegare fatti specifici e positivi, idonei a contrastare la presunzione relativa di colpevolezza.

Si è altresì osservato che non è che l’appaltatore, oltre all’obbligo di eseguire l’opera e separatamente da questo, garantisca anche che l’opera risulti immune da vizi o difformità.

E’ invece la stessa obbligazione di eseguire l’opera che ha per suo contenuto di eseguirla senza difetti o difformità; se ciò non avviene si ha inesatto adempimento.

Questa responsabilità si caratterizza quindi non per l’obbligazione violata, ma per la forma dell’inesatto adempimento.

Anch’essa, inoltre, è fondata sulla colpa dell’appaltatore, sia pure con limitazioni, specie in ordine alle cause che possono giustificare la mancanza di tale colpa.

La giurisprudenza, a sua volta, si è orientata nel senso di ricomprendere la garanzia predetta nell’alveo della responsabilità contrattuale (v. Cass. 2 agosto 2002, n. 11602; Cass. 15 marzo 2004, n. 5250).

Volendo quindi riassumere i termini della vicenda si può rilevare un orientamento tendenzialmente volto a ritenere che i principi generali in materia di adempimento debbano trovare applicazione anche con riferimento al contratto di appalto.

Ciò in quanto le norme speciali che disciplinano l’inadempimento (rectius: l’inesatto adempimento) di tale contratto integrano, ma non escludono, la disciplina generale sulle obbligazioni.

Dunque la colpa, per quanto presunta in forza dell’art. 1218 c.c., è elemento fondante della responsabilità dell’appaltatore.


  1. Vizi e difformità.

L’art. 1667 c.c., come si è visto, dispone che l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità ed in vizi dell’opera.

Secondo l’accezione tradizionalmente e uniformemente accolta, le difformità consistono in divergenze fra quanto realizzato e quanto pattuito o previsto in progetto, mentre i vizi o difetti (i termini, nell’ambito del contratto d’appalto, fra loro si equivalgono) si sostanziano in violazioni delle regole dell’arte o nella mancanza di requisiti la cui presenza debba ritenersi necessaria rispetto al tipo di opera e alla funzione cui in concreto essa è destinata.

Manca una indicazione del legislatore sull’entità della gravita dei vizi.

Il secondo comma dell’art. 1668 c.c. si limita ad affermare che se essi sono tali da rendere l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione, questi può chiedere la risoluzione del contratto.

Centrale per l’individuazione del criterio della gravità è dunque l’aspetto altrettanto importante della determinazione dell’ambito delle tolleranze.

Vizi e difformità possono essere palesi o occulti, a seconda che siano conosciuti o, comunque, riconoscibili al momento della verifica.

Nel caso in cui manchi la riconoscibilità al momento della verifica, ma vi sia stata effettiva conoscenza da parte del committente al tempo dell’accettazione, è a questo successivo momento che occorre avere riguardo.

La riconoscibilità consiste nella semplice possibilità che il vizio possa essere scoperto. In concreto, il criterio usato è diverso a seconda se il committente sia persona esperta o un profano e, nel secondo caso, se si sia avvalso o meno all’uopo di un tecnico.

Si ritiene in dottrina che  i vizi riconoscibili non sono unicamente quelli palesemente riconoscibili, anche da chi non ha competenza specifica, ma quelli che possono essere riconosciuti da un tecnico dell’arte (v. però Cass. 12 giugno 2000, n. 7969 secondo cui “in tema di appalto, l’accettazione dell’opera, pur non liberando l’appaltatore per le difformità ed i vizi dell’opera stessa, lo libera per quelli riconosciuti o riconoscibili in sede di verifica (nella specie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva esonerato l’appaltatore dalla garanzia in ragione della risconoscibilità del vizio consistito nella maggiore altezza delle pedate della scala – apprezzabile a vista o mediante una semplice misurazione da parte di un soggetto di media capacità, usando l’ordinaria diligenza – e dell’accettazione senza riserve dell’opera da parte del committente”).

Il committente decade dal diritto alla garanzia per difformità e vizi palesi qualora, dopo la verifica, abbia accettato l’opera senza riserve.







Decadenza determinata anche dall’accettazione tacita, avvenuta a norma dell’art. 1665 c.c., quando il committente non abbia proceduto alla verifica, senza giusti motivi, nonostante l’invito fattogli dall’appaltatore, oppure non ne comunichi i risultati entro breve termine.

Altra ipotesi di accettazione tacita si ha quando il committente, pur senza procedere alla verifica, riceva la consegna dell’opera senza riserve.

Fondamentale si rivela però il distinguo fra atto di consegna e atto di accettazione dell’opera.

Mentre la consegna costituisce un atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente, l’accettazione richiede la manifestazione di un gradimento del committente in ordine all’opera stessa che presuppone l’intervento di una precisa volontà al riguardo (Cass. 12 maggio 2003, n. 7269).





  1. La denuncia dei vizi e il termine di decadenza.

L’art. 1667 c.c. prevede che “il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta”: la denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.

Trattandosi di termine previsto a pena di decadenza, non può essere sospeso o interrotto.

La denunzia svolge la funzione di porre l’esecutore delle opere nella condizione di svolgere gli accertamenti del caso e di eliminare subito i difetti, perché col trascorrere del tempo ciò potrebbe divenire più difficoltoso.

Per le stesse ragioni la legge prevede che la denuncia non sia necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto i difetti o li ha volontariamente occultati (<<Il riconoscimento dei vizi o delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore – che ai sensi dell’art 1667 c.c. importa la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente – non deve accompagnarsi alla confessione stragiudiziale della sua responsabilità e pertanto è sussistente anche se l’appaltatore, ammessa l’esistenza del vizio, contesti o neghi in qualsiasi modo e per qualsiasi ragione di doverne rispondere>> Cass. 9 novembre 2000, n. 14598, C, 2001, 475)

La denunzia non è soggetta ad alcun onere di forma e può essere manifestata anche verbalmente.

Essa rappresenta una condizione necessaria per l’azione e per tanto l’onere della prova della sua effettuazione incombe sul committente (Cass. 16 giugno 2000 n. 8187, GI, 2001, 906; Cass. 23 ottobre 1997, n.10412); questi potrà avvalersi delle presunzioni nei limiti concessi dall’ordinamento, ma non dei cosiddetti dati di comune esperienza.


  1. La prescrizione dell’azione.

L’azione del committente si prescrive in due anni dalla consegna dell’opera.

Il dies a quo di decorrenza del termine coincide con la consegna definitiva dell’opera, sia essa contestuale o successiva alla verifica o all’accettazione, e non già con riguardo ad una consegna anticipata, con riserva di verifica (Cass. 13 gennaio 2004, n. 271).

In quanto termine di prescrizione in senso proprio, si presta alla sospensione e interruzione alla stregua delle norme generali (Musolino 2002, 163).

Tale termine abbreviato vale per tutte le azioni in capo al committente derivanti dagli artt. 1667 e 1668 c.c. (eliminazione del vizio, riduzione del prezzo, risoluzione per difetti dell’opera, risarcimento del danno), ma non anche per le residue azioni esperibili.

Qualora poi l’appaltatore non solo abbia riconosciuto i difetti, ma si sia anche impegnato ad eliminarli, si verifica una novazione del rapporto, con la nascita di una obbligazione nuova, svincolata dai termini di decadenza e prescrizione di cui all’art. 1667 c.c. e, dunque, soggetta all’ordinario termine decennale di prescrizione (così Cass. 22 ottobre 1997, n. 10364; Cass. 30 gennaio 2001, n. 1320,).

A norma dell’ultimo comma dell’art. 1667 c.c., il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna (Cass. 11 agosto 98, n. 7891).





  1. Il contenuto della garanzia.

L’accertata ricorrenza di vizi e difformità nell’opera appaltata conferisce al committente la facoltà di avvalersi ex art. 1668 c.c. dei seguenti precisi rimedi:

  1. a) eliminazione delle difformità o vizi a spese dell’appaltatore;
  2. b) riduzione proporzionale del prezzo;
  3. c) il risarcimento del danno;
  4. d) risoluzione del contratto.

Per quanto concerne l’eliminazione dei vizi, si tratta di un rimedio perfettamente conforme alla natura dell’appalto.

Qui si giunge all’eliminazione dei vizi attraverso una condotta spontanea dell’appaltatore che vi provvede, senza alcun ulteriore compenso.







Qualora il committente preferisca far riparare l’opera da un terzo, senza per questo sopportare i tempi processuali necessari per l’esecuzione in danno, ciò implicherà una implicita rinuncia alle riparazioni a spese dell’appaltatore, per cui non rimane che l’azione per la riduzione del prezzo.

La riduzione riconosciuta dal giudice potrebbe però non essere sufficiente ad ottenere la completa reintegrazione di quanto il committente debba corrispondere al terzo, intervenuto invece dell’appaltatore, quanto meno con riferimento alla parte di costo corrispondente all’utile di impresa.

Secondo alcune pronunce, l’appaltatore ha non solo il dovere, ma anche il diritto di provvedere direttamente con i propri mezzi all’eliminazione di vizi o difformità contestatigli (Cass. 28 febbraio 1988, n. 2073).

In ogni caso, la tutela apprestata al committente dall’art. 1668 c.c. si inquadra nell’ambito della normale responsabilità contrattuale per inadempimento e pertanto, << qualora l’appaltatore non provveda direttamente all’eliminazione dei vizi e dei difetti dell’opera, il committente può sempre chiedere il risarcimento del danno, nella misura corrispondente alla spesa necessaria alla eliminazione dei vizi, senza alcuna necessità del previo esperimento dell’azione di condanna alla esecuzione specifica>> Cass. 2 agosto 2002, n. 11606)

Punto sul quale si assiste ad una sostanziale conformità in dottrina e giurisprudenza è quello che, in forza del principio di esatto adempimento, all’appaltatore che chieda il pagamento del corrispettivo pattuito prima dell’avvenuta eliminazione di difformità e vizi, contestatigli nel rispetto dei termini di decadenza e prescrizione di cui all’art. 1667 c.c., potrà essere opposta l’eccezione prevista all’art. 1460 c.c., per la quale inadimplenti non est adimplendum.

Il committente non è quindi tenuto ad adempiere alle sue obbligazioni, se non dopo l’effettiva esecuzione dei lavori di necessario ripristino.

L’eccezione del committente dovrà per altro limitarsi a quanto consentito dal criterio di buona fede, senza trattenere somme maggiori di quanto occorrente per rendere l’opera a regola d’arte.

Nel caso in cui siano stati contrattualmente pattuiti acconti in corso d’opera ed il committente sia in ritardo nel relativo pagamento, l’eccezione di inadempimento potrà essere sollevata dall’appaltatore, col rifiuto di eseguire eventuali opportuni ripristini, prima che i pagamenti scaduti siano stati regolarizzati; e ciò a maggior ragione quando il committente abbia operato, some nella pratica accade con una certa frequenza, ritenute a garanzia sulla liquidazione degli stati di avanzamento lavori (Cass. 28 agosto 2002, n. 12609).

Ovviamente, qualora nonostante l’intervento dell’appaltatore, i vizi non siano completamente eliminabili il committente, che lo richieda, avrà diritto anche agli altri rimedi della riduzione del prezzo o del risarcimento del danno, secondo quanto per essi previsto.





6.1. L’azione di riduzione del prezzo.

L’azione di riduzione del prezzo può essere proposta in via alternativa, subordinata o, può essere complementare a quella di eliminazione dei vizi o difformità.

Le due azioni non sono però surrogabili l’una con l’altra, per cui <<se il committente non ha chiesto l’eliminazione dei vizi o delle difformità, può essere disposta soltanto la riduzione del prezzo pattuito; l’appaltatore, quindi, non può chiedere di eseguire spontaneamente le opere necessarie per l’eliminazione dei vizi se la relativa domanda non è stata posta dal committente, mentre può procedere a detta eliminazione, prima della sentenza, se il committente ha chiesto la condanna dell’appaltatore al pagamento della somma occorrente>> Cass. 15 marzo 2004, n. 5250).

Mentre la presenza di difetti implica di per se stessa una diminuzione di valore e quindi legittima la richiesta di riduzione del prezzo, nel caso di semplice difformità possono raffigurarsi ipotesi diverse.







Si immagini il caso in cui l’opera sia stata realizzata con materiali difformi ma più pregiati rispetto a quelli commissionati.

Qui il committente, che non chieda l’eliminazione della difformità, certamente non potrà ottenere una riduzione del prezzo.

Quanto alla prova, il committente che agisca per la riduzione del prezzo dovrà provare non solo l’esistenza della difformità lamentata, ma anche che a causa di questa l’opera possiede un valore più basso rispetto a quello che avrebbe avuto se fosse stata realizzata come pattuito, poiché il deprezzamento non è sempre conseguenza necessaria della difformità (Cass. 4 marzo 2003, n. 3190).

La misura della riduzione del prezzo pattuito, secondo la giurisprudenza, va determinata in base al raffronto differenziale fra i valori dell’opera pattuita e di eseguita difettosamente e detta differenza può coincidere con il costo delle opere necessarie per l’eliminazione dei difetti (Cass. 10 gennaio 1996, n. 169), se di ciò sia fornita adeguata motivazione.


  1. Il risarcimento del danno.

In caso di colpa dell’appaltatore nella causazione dei vizi e difformità, immutato il diritto del committente al risarcimento dei danni, come previsto dall’art. 1668 c.c.

Azione, quella risarcitoria, che sul piano processuale può essere avanzata in via concorrente, subordinata od anche esclusiva rispetto alle richieste di eliminazione dei vizi e/o riduzione del prezzo mentre su un piano sostanziale una tale eventualità sarebbe da escludersi.

Si è osservato che indubbiamente <<la lettera della legge (…) potrebbe trarre in inganno, e fare intendere che un risarcimento del danno sia dovuto sempre, a complemento dell’eliminazione del vizio o della riduzione del prezzo. Invece non è così. L’eliminazione del vizio e la riduzione del prezzo sono già, di per se stessi, mezzi satisfattivi; può darsi benissimo, quindi, che bastino, da soli, a riparare tutto il danno che il committente ha subito. Al risarcimento, come sanzione ulteriore rispetto alle due anzidette, si può far luogo solo se ed in quanto esistano altri danni, che non possano essere riparati con l’eliminazione del vizio o colla riduzione del prezzo>>.

In tale senso si orienta la Cassazione laddove afferma: <<il danno risarcibile si identifica col pregiudizio patrimoniale derivato al committente dall’inadempimento o dall’inesatto adempimento (…) e non già con l’equivalente della prestazione non eseguita o male eseguita” dall’appaltatore>> Cass. 27 febbraio 1988, n. 2073).





  1. La risoluzione del contratto.

Il secondo comma dell’art. 1668 c.c. attribuisce al committente la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto, “se le difformità i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione”.

Di tutta evidenza come il legislatore, nel dettare la norma speciale, ha inteso non soltanto precisare il requisito comune dell’inadempimento di non scarsa importanza, previsto dall’art. 1455 c.c., ma espressamente ha derogato da tale prescrizione, per richiedere un inadempimento di gravità ben superiore.

Conferma di ciò viene tratta anche dal raffronto fra le norme dettate in materia di appalto e quelle che regolano la compravendita, contratto ritenuto affine a quello di cui ci si occupa.

Come la giurisprudenza ha chiarito, quello richiesto per la risoluzione dell’appalto è <<un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l’art. 1668, 2° comma, c.c. la risoluzione deve essere dichiarata solo se i difetti rendano l’opera appaltata inidonea alla sua destinazione, invece la’art. 1490 c.c., stabilendo che la risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscono in modo apprezzabile il valore della cosa, non si discosta dalla norma generale dell’art. 1455 c.c. per la quale l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza avuto riguardo all’interesse del creditore>> Cass. 20 settembre 1990, n. 9613).

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La mancata idoneità dell’opera non deve necessariamente essere assoluta e derivare da vizi ineliminabili, risultando sufficiente che gli stessi siano tali da renderla inadatta in modo totale, anche se non definitivo (Cass. 7 dicembre 1981, n. 6479).

Deve in ogni caso trattarsi di difetti o difformità di gravità apprezzabile, mentre non legittimano la risoluzione quelle mancanze che, pur compromettendo la funzionalità della cosa, siano ciononostante facilmente emendabili (Cass. 12 gennaio 1978, n. 129).

Altra e diversa possibilità di risoluzione è quella prevista dall’art. 1662 c.c., che si ipotizza quando, in corso di esecuzione, l’appaltatore non rispetti il termine, che deve essere congruo, assegnatogli dal committente per conformarsi alle condizioni contrattuali o regole dell’arte, che fino al quel momento abbia mancato di rispettare.







Si tratta di un rimedio analogo alla diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c. e che al pari di questa prescinde dalla gravità dell’inadempimento.

Scopo della norma è quello di concedere all’appaltatore, in corso d’esecuzione, un termine per rimediare alle manchevolezze, ristabilendo l’equilibrio fra le prestazioni contrattuali.

Qualora questi non vi provveda, la risoluzione del contratto si produce automaticamente, senza bisogno di azione giudiziale, che si mantiene necessaria solo al fine del risarcimento dei danni (Cass. 4 marzo 1993, n. 2653).

  1. La responsabilità per rovina e difetti di cose immobili. I presupposti

Quando l’appalto ha per oggetto la realizzazione di edifici o di altre cose immobili destinate per natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa.

In questo senso dispone l’art. 1669 c.c.

E’ questa la cosiddetta responsabilità aggravata dell’appaltatore, o garanzia decennale.

Tale disposizione si applica non solo alle nuove costruzioni o agli ampliamenti delle costruzioni preesistenti, ma anche alle modifiche o riparazioni, pur con opportuni distinguo.

Trattandosi di norma avente un carattere speciale, non può essere estesa oltre alle ipotesi previste di rovina totale o parziale, pericolo di rovina e gravi difetti.

Sono dunque esclusi i vizi minori, i vizi palesi e le difformità, che soggiacciono tutti unicamente alla disciplina di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c. ( Cass, 1 marzo 2001, n. 3002).







La rovina può essere anche solo parziale, purché riguardi parti strutturali dell’edificio, indispensabili per la sua utilizzazione o conservazione.

Circa il pericolo di rovina, la legge prescrive che sia evidente, il che tuttavia non significa l’imminenza del crollo, ma semplicemente la certezza che esso prima o poi avvenga, in assenza di interventi opportuni. E’ inoltre sufficiente che l’evidenza si riveli tale ad un esperto e non necessariamente a qualsiasi soggetto.

Quanto invece alla definizione dei gravi difetti deve intendersi <<qualsiasi alterazione che determini o possa determinare uno stato di apprezzabile menomazione del bene. Da un lato, perciò, sono compresi i vizi costruttivi che possono pregiudicare la sicurezza o la stabilità del fabbricato, dall’altro la norma si riferisce anche ai difetti da cui derivi un danno significativo alla funzione economica dell’edificio o una sensibile menomazione del normale godimento della cosa>> (Musolino 1997, 187).

In tal senso si pronuncia la giurisprudenza (v. Cass. 1 agosto 2003, n. 11740).

Finalità dell’azione ex art. 1669 c.c. è il risarcimento del danno, che può avvenire in forma specifica, tramite la realizzazione delle necessarie riparazioni, o per equivalente pecuniario (Cass. 29 novembre 1996, n. 10624; App. Roma 8 maggio 2000).

In tal caso si ha un debito di valore, da liquidarsi con riguardo al potere di acquisto della moneta al momento della decisione, anche qualora esso venga rapportato all’importo delle spese occorse per le riparazioni effettuate dal committente che ha subito il pregiudizio (Cass. 23 maggio 2000 , n. 6682, RFI, 2000).

L’azione per il risarcimento del danno è subordinata al rispetto del termine di decadenza di un anno dalla scoperta del vizio e si prescrive in un anno dalla denuncia.

Anche per questa azione, come per l’art. 1667 c.c., il riconoscimento del vizio da parte dell’appaltatore esime il committente dall’onere di denuncia (Cass. 5 settembre 2000, n. 11672).





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